mercoledì 26 maggio 2010

La bambina che amava esplorare i palazzi

Francesca era una bambina molto vivace e traboccante di fantasia. Alla compagnia dei suoi coetanei preferiva, di gran lunga, i fantasmi della sua immaginazione, amichevoli o mostruosi che fossero. Da quando un ragazzino l’aveva umiliata in pubblico, facendola sentire una perfetta deficiente, evidenziando a tutti quanto fosse goffa e brutta, oltre che ingenua e credulona, aveva scelto, senza il minimo rimpianto, che sarebbe per sempre stata alla larga da tutti gli altri bambini. Non era stata una decisione così sofferta, dopotutto. Tra l’altro, la sua scelta era passata inosservata anche agli occhi dei suoi stessi genitori, i quali, solo di lì a poco, al limite, si sarebbero chiesti per quale strano motivo la loro figlia non avesse amici. C’era ancora tempo per queste cose, credevano, e poi c’erano problemi più importanti ai quali dedicarsi.
Tra i giochi preferiti di Francesca ve ne era uno in particolare: l’esplorazione. Si eccitava incredibilmente nello sgusciare poco lontano dal portico del proprio palazzo, in cerca di altri edifici da colonizzare. D’altro canto conosceva la sua casa, le sue scale e i vari pianerottoli a memoria, quindi desiderava andare alla scoperta di nuovi spazi sconosciuti, preferibilmente poco abitati. Finora, tuttavia, la sua era stata più un’intenzione potenziale, che un’esperienza già testata. Non lo avrebbe mai ammesso, ma un po’ aveva paura, paura di incontrare altre persone, in particolare altri ragazzini. In effetti non si era mai spinta oltre i vari portoni. Ogni tanto provava ad aprirne uno, ma come si accorgeva che era serrato, desisteva senza insistere oltre e senza cercare uno stratagemma per entrare ugualmente.
Finalmente un giorno la fortuna volle venirle incontro.
Francesca stava compiendo il suo consueto giretto intorno al portico di casa propria; oltrepassò il portone di un palazzo, chiuso come al solito, quindi si addentrò nella strada, per provare ad allargare il bacino di possibilità a sua disposizione. Giunta dinanzi a un condominio piuttosto lussuoso, per come lo percepiva lei, sentì lo stimolo di provare ad entrare, forzando la maniglia del portone. Chiuso. Guardò un po’ all’interno, coprendosi gli occhi ai lati, con i palmi della mano, e riuscì a intravvedere un androne piuttosto grande. Scrutò con attenzione le cassette delle lettere, cromate d’argento, quindi spalmò il proprio sguardo sul pavimento in marmo rosso. Sulla parete c’era un quadro ma, a causa del riflesso, non capiva cosa vi fosse dipinto. In fondo dovevano esserci delle scale, ma non riusciva a vederle.
La curiosità le faceva battere il cuore veloce: voleva entrare ed esplorare quel luogo da cima a fondo, ma come avrebbe potuto?
Improvvisamente un signore, dall’interno, aprì il portone. Era ben vestito. Indossava un soprabito piuttosto lungo, almeno fin sotto le ginocchia, di un colore indefinito, sul grigio scuro. Le sue scarpe erano nere e lucidate a specchio, mentre in testa aveva un buffo cilindro e un paio di baffi lievemente incurvati, tanto lustrati da far concorrenza a Hercule Poirot. L’uomo sorrise alla bimba, che, per la sorpresa, si era tirata velocemente indietro, quindi la invitò gentilmente ad entrare, prima di richiudere dietro di sé il portone.
Francesca indugiò un attimo sui suoi occhi marroni e leggermente rugosi, forse più per quell’atteggiamento forzato di finta cortesia, che per vecchiaia; poi fece scivolare gli occhi fin alla sua mano, che ancora teneva stretto il maniglione lucente della porta d’ingresso. Portava guanti bianchi, o forse leggermente beige, era impossibile dirlo con certezza. Dopo qualche istante di indecisione, la bimba si fece coraggio ed entrò, mentre l’uomo, dopo il suo passaggio, lasciava sigillare, nuovamente, il portone alle sue spalle.
Francesca rimase a guardare l’uomo al di là del portone e l’uomo, a sua volta, sostò, per qualche istante, di fronte a lei. Uno spesso strato di vetro temperato li divideva, ma alla ragazzina non garbava molto che fosse rimasto fermo lì, come uno stoccafisso, con quel suo sorrisetto e quei suoi ridicoli baffetti. Lo guardò come per chiedergli cosa volesse, poi, con uno scatto che non si sarebbe mai aspettata, il signore si allontanò, scomparendo presto al suo sguardo. Così, rimase sola.
Francesca si voltò ed ebbe modo di vedere meglio l’androne del palazzo: in effetti le cassette delle lettere erano tutte argentate, estremamente lucide, perfettamente identiche. Dapprima non fece caso al fatto che non vi fossero apposte le etichette con i nomi dei residenti, poi, quando vi tornò con lo sguardo, fu attratta di nuovo dal quadro che da fuori le era stato impossibile vedere. Era davvero grande, almeno un metro e mezzo per due metri di altezza. La cornice era color ciliegio e molto sottile, solo un paio di centimetri, e l’enorme vetro, posto a mo’ di protezione per il dipinto, non agevolava la visione dello stesso, visto che la luce giungeva frontalmente. Avvicinandosi ancora, ebbe modo di constatare che quel quadro raffigurava quello stesso palazzo, dall’interno. Era come se qualcuno avesse scattato un fotogramma da uno dei pianerottoli superiori, guardando verso il basso, verso il portone, dove risaltava la pavimentazione lucida e rossastra, lievemente illuminata dalla luce esterna. I vari piani, con le relative scale, si ripetevano all’infinito, senza alcuna differenza. In effetti non c’era una pianta, né altro segno di vita.
Francesca fece qualche passo e si trovò di fronte la prima rampa di scale, l’ascensore e tre porte.
Le porte erano anch’esse color ciliegio; avevano una maniglia argentata, rotondeggiante, e nessuna etichetta o targhetta che rivelasse i relativi proprietari. Ora che ci pensava, non c’erano nemmeno dei tappetini a terra. Nemmeno un filo di polvere. Sembrava una casa appena finita di costruire, ripulita a dovere e ancora disabitata. Le mura erano una via di mezzo tra un color pesca e un beige.
L’attenzione della bimba si focalizzò dapprima sulle scale; erano dello stesso colore e materiale del pavimento sul quale sostava e, per troppo che erano lucide, aveva anche l’ingenuo sentore che lei fosse la prima persona a calpestare quei luoghi. I gradini erano larghi e poco alti, sicuramente meno alti del normale, di almeno cinque centimetri, tenendo conto dei gradini di casa propria. Il corrimano era sempre argentato e, stranamente, nemmeno un alone o una semplice ditata ne intaccava lo splendore. Tutto quell’argento le stava dando alla testa, quindi si girò verso l’ascensore. Suo malgrado, anche l’ascensore era dello stesso colore. Per fuggire dal suo stesso riflesso, si affrettò a premere un pulsante per entrare dentro ed esplorare così, anche i piani superiori. L’ascensore si aprì immediatamente: doveva essere già al piano.
Entrando guardò solo il pavimento che continuava, anche lì dentro, ad essere in marmo rosso. Le porte dell’ascensore, quindi, si chiusero subito dopo il suo passaggio e solo allora la bambina si accorse che le sue pareti erano tutte a specchio. Ebbe un attimo di repulsione nel vedersi riflessa per intero e così insistentemente, inoltre il vano dell’ascensore era davvero grande, almeno due metri per tre di profondità, e ciò le creava un certo disagio. Non lo avrebbe mai immaginato. Anche in alto, al posto della lampada, c’era uno specchio, quindi non riuscì a capire da dove provenisse la luce. Inizialmente ebbe anche difficoltà a trovare il quadro dei comandi, per poi scoprire che era appena dietro di lei, alla sua destra, ovviamente cromato d’argento. C’erano 13 pulsanti. Per un attimo rimase perplessa: da fuori non le era sembrato che il palazzo fosse così alto, anche se, in verità, non è che era stata ad esaminarlo. Rimase a contemplare le scelte che aveva a disposizione: c’erano due piani sotterranei, il piano terra e undici piani superiori. Senza indugiare troppo scelse l’ultimo piano: sarebbe salita in alto, per poi riscendere utilizzando le scale, in modo da esplorare davvero tutto l’esplorabile. Premette il pulsante e l’ascensore si azionò, incominciando, lentamente, a salire. Quell’ascensore doveva essere davvero nuovo di zecca: non emetteva uno scricchiolio, e l’andatura era lineare e poco rumorosa. Dopo qualche secondo di attesa le porte finalmente si aprirono.
Francesca fece per uscire, ma una strana sensazione la colpì per la prima volta; sembrava una leggera vibrazione, una specie di angoscia senza senso. Si fece coraggio ed uscì dalla cabina, mentre le porte subito di richiudevano alle sue piccole spalle.
Il pianerottolo era molto grande e ben illuminato, anche se le finestre avevano i vetri opacizzati, che non le permettevano di vedere il panorama; tra l’altro, erano disposte troppo in alto per consentirle di accedere alle maniglie. Il solito marmo rosso ricopriva completamente il pavimento e i gradini, che scendevano rapidamente di sotto. Tre porte color ciliegio rompevano la monotonia di quella visione. Ancora nessuna pianta, zerbino o targhetta. Guardando meglio, si accorse che non c’era nemmeno il campanello e lo spioncino, in nessuna delle tre porte, e il silenzio si faceva sempre più insostenibile. Francesca tossicchiò e deglutì, per sentire una voce amica, ma i lievi suoni emessi furono presto sovrastati dal forte eco prodotto da quel gigantesco ambiente. Si avvicinò, quindi, al corrimano e guardò di sotto, dove poté riconoscere una visuale del tutto identica a quella del dipinto. Poggiando le dita su quella perfetta superficie argentata, vi lasciò le proprie impronte, rompendo quella totale pulizia alla quale si era già abituata.
A quel punto, Francesca decise di scendere a piedi, come si era prefissata in ascensore. Si posizionò sul primo gradino e, dopo un attimo di perplessità, iniziò a scendere.
TAC TAC TAC... Risuonavano le suole delle sue scarpe sul marmo.
Terminate due rampe di scale, fu sul pianerottolo sottostante, identico al precedente. Mentre continuava la sua discesa, provò a decifrare l’odore di quel palazzo; infatti ognuno ne possedeva uno, lo sapeva per esperienza, visto che era uno degli aspetti che esaminava ogni volta che la mamma la accompagnava a casa di amici, parenti o conoscenti. Eppure c’era qualcosa di strano: quell’ambiente non aveva odore, né di nuovo, né tanto meno di vecchio.
Le finestre si susseguivano sempre identiche: opacizzate e con la medesima luminosità esterna. Se non avesse avuto percezione dei suoi stessi movimenti, avrebbe pensato di essere ancora sullo stesso piano, immobile. Doveva essere un edificio disabitato. Quelle porte erano troppo anonime e tutto era troppo finto, anche per una bambina.
Dopo un po’ di tempo, il suo orientamento le disse che doveva quasi essere arrivata a destinazione, di sotto. Eppure, razionalmente, non le sembrava. Per meglio capire a che punto della scalinata fosse, si sporse leggermente, come aveva fatto una volta salita in cima.
La sensazione che provò fu, per la prima volta nella sua vita, di autentico terrore, tanto che venne sopraffatta da una fortissima vertigine, che le impedì di soffocare un minuscolo urlo.
Dovevano esserci, sotto di lei, ancora decine, si, proprio così, DECINE di pianerottoli, prima dell’androne, ancora molto in lontananza. Si sentì mancare, anche se non se ne stava rendendo pienamente conto. Stava cercando di trovare una spiegazione, eppure non ce n’era una. Anche se non aveva contato i pianerottoli percorsi, doveva averne superati almeno una decina, o poco meno. No, non c’era una spiegazione.
Prima di perdere la ragione, iniziò a correre freneticamente giù per le scale, contando, di volta in volta, tutti i piani superati.
UNO, DUE, TRE, QUATTRO... CINQUE, SEI, S-SETTE... OTTO, NOVE...
Dovette fermarsi per il fiatone e per il grosso dolore che le stava lancinando la milza. Tra un grosso respiro e l’altro, si affacciò nuovamente e iniziò a piangere in modo, per lei, quasi alieno quando, dinanzi ai suoi occhi, si pararono almeno un centinaio di piani tutti identici. Pensò di impazzire.
Improvvisamente le venne un’idea: l’ascensore.
Corse dinanzi alle porte argentate e premette il pulsante, mentre il suo stesso riflesso deforme la fissava in modo strano. Le porte si aprirono quasi subito.
Per un attimo ebbe paura di un attacco claustrofobico, anche se nemmeno sapeva cosa fosse. Eppure, quando le porte si richiusero alle sue spalle, ebbe dei momenti di panico.
Guardò il quadro dei comandi e, con gli occhi sgranati e quasi iniettati di sangue, scoprì che i pulsanti erano talmente aumentati da raggiungere il pavimento e il soffitto, continuando poi per almeno cinque serie identiche e parallele. Erano decine e decine di pulsanti.
Si fece finalmente coraggio e cercò il pulsante PIANO TERRA. Lo premette, singhiozzando come non aveva mai fatto. L’ascensore iniziò presto a scendere... e scese, scese per parecchio tempo, tanto che Francesca finì per accucciarsi a terra, col mento dietro le ginocchia tremanti.
DLIN DLON... Fece l’ascensore mentre apriva le sue porte, creando in lei una sensazione contraddittoria di normalità e pazzia al tempo stesso. Attese qualche secondo, prima di rimettersi in piedi ed uscire.
Finalmente fu in piedi, anche se tutto sembrava un po’ troppo buio all’esterno della cabina.
Qualcosa non andava.
Sporse la testa al di fuori e, invece dell’androne o di uno dei tanti identici pianerottoli, si trovò in quello che doveva essere un sotterraneo di dimensioni sproporzionate. Non c’era pavimento, né intonaco, ma solo cemento grezzo sopra, sotto e di lato, e tante porte di ferro una dopo l’altra, a intervalli regolari.
In fondo tutto era buio e impenetrabile, pertanto non poteva calcolare, con una sola occhiata, dove finisse il sotterraneo, era impossibile. Un senso di gelo le stava penetrando le ossa. Improvvisamente, dall’estremità, sentì muoversi un’ombra, fulminea, e tutto, dentro di lei e non fuori, ne era certa, perché se lo sentiva nel cervello, iniziò a vibrare rumorosamente, come se una presenza “fuori fase”, in collisione con la realtà, stesse tentando di avvicinarsi, di assalirla in qualche modo. Era come subire un terremoto rimanendo perfettamente immobili, era come tremare per il terrore più spaventoso, senza muovere un pelo. Non era capace di capire, le vibrazioni interne le stavano fottendo letteralmente il cervello.
Senza sapere come o per mano di chi, premette un pulsante a caso e tornò lentamente dentro l’ascensore, anche se non ne era mai uscita del tutto, per sua fortuna. Le porte si sigillarono e la cabina iniziò a salire.
Dopo un po’ si riebbe. Colta da pochi istanti di lucidità, pensò di aver premuto per errore il pulsante del sotterraneo, anziché quello giusto, del piano terra. A scanso di equivoci, questa volta premette il pulsante del primo piano: due rampe di scale avrebbe potuto percorrerle velocemente, per poi uscire senza guardarsi alle spalle.
Cercò il tasto col numero “1” e, per caso, gli occhi le caddero sul pulsante “S1”. A differenza degli altri, questo tasto era logoro e quasi impregnato di ruggine rossastra; la scritta si leggeva a mala pena. Il pulsante “S2”, invece, era integro, ancora perfettamente lucido, tuttavia quasi svenne nel pensare a cosa poteva succedere se solo l’avesse schiacciato. Tornò indietro con lo sguardo e, finalmente, trovò il pulsante del primo piano, anch’esso perfettamente intonso. Si fece forza, forse poteva ancora uscirne. Premette il tasto.
Dopo pochi secondi, le porte si aprirono. In quel breve lasso di tempo, Francesca decise che sarebbe dovuta correre subito nel piano sottostante, senza neanche guardarsi intorno; doveva solo scappare fuori, percorrere le due rampe di scale e... Non ci voleva poi molto.
Appena la luce del pianerottolo la illuminò, scattò in avanti per poi ripiegare subito verso le scale che scendevano di sotto; il cuore le scalpitava nel petto come non mai. Scese rapidissima, guardando solo in basso, verso i suoi piedi che passavano da un gradino all’altro. Alla fine della seconda rampa, si trovò in un nuovo pianerottolo.
Un grido percorse quel luogo infinito da cima a fondo. Si lanciò, quasi, verso la ringhiera, con la mente offuscata da mille folli pensieri, e poi vide, vide ciò che le fece perdere del tutto il senno: migliaia di piani sotto di lei, un androne ormai invisibile e indistinguibile (che forse nemmeno esisteva più). Per la prima volta guardò anche sopra la sua testa... lo spettacolo fu identico. Tornò indietro, senza nemmeno voltarsi, e il vano dell’ascensore le si ripresentò interamente tappezzato di pulsanti, innumerevoli piccoli bottoni.
Ormai in preda alla follia, si gettò sulla porta più vicina. Non potendo suonare, bussò battendo tutti e due i pugni, quasi con violenza, su quella superficie anonima in ciliegio. Nessuna risposta. Provò anche la porta successiva e, alla terza, si appese letteralmente alla maniglia, scoprendo che la porta era già aperta.
Per un secondo si sentì, contemporaneamente, sollevata e angosciata. Non sapeva se andare oltre, ed entrare, o se lasciar perdere. Spinse leggermente la porta verso l’interno, per guardare dentro. C’era una specie di ingressino spoglio, nulla più. Finì di spalancare la porta e si addentrò nell’appartamento.
All'interno era tutto molto luminoso, come in una perfetta giornata di sole. Dall’ingresso, un corridoio piuttosto lungo portava a quello che doveva essere il salotto. In effetti c’era un tavolo piuttosto massiccio e ingombrante e un divano a tre posti. Per la prima volta, da che era lì, stava vedendo qualcosa che non fosse un gradino, una ringhiera o un ascensore, ed era già tanto, per la sua piccola mente. Eppure ancora qualcosa non quadrava. Questi semplici mobili erano nuovi, come mai usati. Mancava solo il cellophan; almeno così sembrò a Francesca. Non c’era altro. Le mura erano bianche e spoglie, il pavimento era perfettamente pulito, non esistevano piccoli oggetti, segni particolari... nulla. Guardò alla sua destra e scoprì altre due porte. Ne aprì una e si trovò di fronte ad un altro corridoio, questa volta in penombra. In profondità si vedevano altre stanze. Improvvisamente, si accorse che se la stava quasi facendo sotto. Da quanto tempo era li? Non ne aveva ormai nemmeno più la minima cognizione. In ogni caso, la vescica iniziò a dolerle, quindi provò ad aprire alcune di quelle porte, in cerca del bagno. Al primo tentativo, sul suo volto si stampò un lieve sorriso. Corse verso il water, senza studiare oltre l’ambiente, quindi si abbassò i pantaloni. Prima di sedersi, però, notò che in fondo a quel water, tra l’altro privo di tavoletta, non c’era acqua e nemmeno un “buco”, per dirla tutta. La tazza sembrava quasi poggiata per terra. Ormai non si preoccupò oltre e si scaricò, mentre l’urina riempiva il sanitario dall’interno. Ovviamente mancava la carta igienica. Si guardò intorno e vide che in quel bagno c’era solo un lavabo, semplice come il water. Era quasi certa che non vi fosse l’acqua nemmeno lì, ma provò lo stesso e, con sua grande sorpresa, un leggero fiotto trasparente iniziò a sgorgare. Mise le piccole mani lì sotto e se le lavò con cura. L’acqua, si accorse, pareva non avesse temperatura: non era né fredda, né calda. Scostò le mani e se le passò sulla maglietta per asciugarle, ma la maglia rimase perfettamente asciutta. Non credeva ai propri occhi: erano le sue mani ad essere asciutte. Riaprì l’acqua e provò a berne un sorso; sentì il liquido fluirle sulle labbra, ma nulla arrivava realmente in gola. Era di nuovo sgomenta. Fece per chiudere il rubinetto, quando l’acqua assunse una colorazione giallastra; questa volta, piccole gocce schizzarono ai lati del lavabo, macchiandolo. Sembrava quasi la sua stessa urina, ma era troppo spaventata per andare a controllare il contenuto del water.
Scappò fuori, incapace di pensare... Doveva andarsene, non c’era soluzione. Uscita dal bagno inciampò sui suoi stessi piedi, ormai stanchi. Sembrava tutto più buio, più rarefatto. In sala, fece appena in tempo a guardare, con la coda dell’occhio, il divano, che una specie di presenza fece capolino tra le sue poche certezze. Si girò lentamente e vide una figura che la fulminò all’istante; non era definita, aveva dei contorni sfocati e irriconoscibili e, quel che era peggio, il suo cervello, o la sua percezione della realtà, aveva iniziato di nuovo a vibrare prepotentemente, come nel sotterraneo. Questa volta, però, non c’era scampo, lo sentiva. La presenza l’aveva seguita fin lì e le stava folgorando il cervello, imprimendole un terrore che non pensava potesse esistere. Si stava avvicinando, sembrava quasi un bambino, come lei. La stanza si faceva tutta più buia e sfocata. Lei stessa si stava perdendo in quella incredibile visione, tanto che quasi non sentiva più il suo corpo. Voleva fuggire, ma era attratta da un enorme buco nero dai capelli biondi, che mutava in continuazione. Francesca si sentì morire, ma in quei brevi attimi scivolò, quasi, verso la porta di ingresso. La figura si faceva sempre più distante e le vibrazioni diminuivano, lasciandole un po’ di respiro. Varcata la soglia, chiuse la porta in ciliegio, sbattendola con violenza. Da questo momento in poi fu preda del suo solo istinto che, purtroppo, non avrebbe mai potuto salvarla. Scese le scale per ore e ore, poi prese l’ascensore e premette dei pulsanti a caso... Assistette alla moltiplicazione infinita di quei maledetti piani, fino a perdere coscienza di chi fosse. Sapeva soltanto che non doveva, non poteva fermarsi. Percepiva ancora la terribile presenza e immaginava che potesse non essere l’unica. Da quando stava scappando? Ore? Giorni? Mesi?... Il suo corpo non dava più segni di stanchezza, oramai, quasi non esisteva più.
Nella sua folle corsa, parecchi pianerottoli stavano marcendo, sotto ai propri occhi. La ruggine aveva invaso corrimano e ascensore, mentre il pavimento sembrava sempre più opaco e pregno di polvere. In quegli ultimi pianerottoli, dove ancora persistevano le superfici cromate, ebbe un attimo di lucidità e si specchio in uno dei tanti riflessi a sua disposizione, scoprendo che, dinanzi a lei, c’era una vecchia decrepita, bassa come una bambina ma invecchiata di decenni e con lo sguardo da pazza. Quel piccolo barlume di razionalità che le rimaneva evaporò nel nulla, lasciandola in balia di quell’eterna corsa.


Da un ritaglio di giornale parzialmente leggibile:


[...] Ancora ignote le cause [ILLEGGIBILE]. A poco sono servite le dichiarazioni del custode del palazzo, il quale continua a sostenere, anche di fronte a una possibile accusa di omicidio volontario, di non aver lasciato entrare la bambina e di aver, al tempo stesso, controllato personalmente che tutte le entrate fossero perfettamente sigillate. [...] La disperazione di una povera madre e lo sconcerto di un intero quartiere di fronte ad una vicenda così inspiegabile [...]. Francesca aveva solo 8 anni, che almeno riposi in pace tra gli angeli.

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Chi sono

Katia Maelstrom

 


Sono una scrittrice appassionata di Horror e Fantastico in senso lato. Il Fantasy e la Fantascienza generalmente mi annoiano, così come l'Horror in senso stretto. Preferisco lasciarmi prendere dalla fantasia e dal delirio, da quell'angoscia tipica della situazioni inspiegabili e senza uscita, intrecciate in modo sapiente, come solo pochi scrittori sono riusciti a fare... Riuscirò nel mio intento? Giudicate voi!